Parecchio, almeno nei secoli passati: mangiare i nemici catturati in battaglia era considerato un rito religioso. C’è anche un cannibalismo “malato “,chi lo pratica oggi ha gravi problemi psichiatrici. Sul cannibalismo antico gli studiosi di antropologia sono divisi: c’è chi crede fosse una pratica diffusa e accettata e chi invece pensa che sia sempre stato un atto al di fuori della norma, giustificato soltanto da particolari situazioni. L’unico popolo che praticava il cannibalismo su larga scala erano gli Aztechi del Messico, che mangiavano, con aspetti di rito religioso, dalle 15 mila alle 250 mila persone l’anno, soprattutto nemici catturati in battaglia. Parecchie tribù, in varie parti del mondo, sembra seguissero occasionalmente questa pratica. In molte culture infatti, i nemici sono considerati quasi un’altra specie, come gli animali, e tra caccia e guerra ritengono che non ci sia molta differenza. Oggi questa forma di cannibalismo è scomparsa, forse perché si sono diffuse informazioni sui rischi che può comportare, come la propagazione di infezioni; inoltre, il modo stesso di fare la guerra è cambiato.
Per fame. Ben diverso è il cannibalismo praticato in situazioni di fame disperata, negli assedi o durante gravi carestie. Un caso famoso è quello deliaereo caduto sulle Ande nel 1972, dove i pochi superstiti sembra si siano nutriti dei corpi dei compagni morti nell’incidente. C’è poi il cannibalismo rituale, in cui i parenti si nutrono del corpo (o parti di esso) del congiunto morto, come si faceva in Papua Nuova Guinea ancora fino 50 anni fa. Nelle società moderne i rari casi di cannibalismo sono dovuti a malati di mente, con gravi problemi psichiatrici.
